Lo streaming video inquina: cosa fare per ridurre l’impatto

Lo streaming video è sovrano indiscusso di un nuovo tempo libero obbligato tra le mura di casa e il suo utilizzo è destinato a ricoprire un ruolo sempre più dominante nel panorama dei contenuti digitali declinato nelle più disparate categorie. In testa alla classifica primeggiano video e videogames: per dare un ordine di grandezza, secondo Cisco nel 2022 i video copriranno oltre l'82% del traffico internet complessivo, 15 volte più alto di quanto fosse nel 2017.

Dietro alla lista fiorente di vantaggi che rendono le piattaforme di streaming video tra le invenzioni più apprezzate della storia, si annida tuttavia una minaccia non da poco: l'inquinamento che producono.

Nell'immaginario collettivo è difficile abbinare la Rete al pericoloso plotone degli inquinanti ambientali, eppure i consumi energetici generati dall'utilizzo di Internet sono più elevati di quanto si pensi. Basti pensare che le emissioni globali di CO2 sono costituite al 4% dalla tecnologia (fonte: Anders SG Andrae, "The Shift Project"), più dell’aviazione globale che è a quota 2,5%.

Secondo il report "Lean Ict – Towards Digital Sobriety" di una società no profit francese di nome The Shift Project, nel 2008 i dispositivi elettronici e le infrastrutture digitali hanno contribuito alle emissioni globali di anidride carbonica per il 2%, nel 2020 sono passate al 3,7% e nel 2025 si stima che arriveranno all'8,5%, eguagliando le emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazione. Di questo passo, la previsione è che l'impatto del digitale nel 2040 sarà pari al 14% delle emissioni (fonte: "Assessing ICT global emission footprint").

I video, soprattutto, sono tra i prodotti digitali che inquinano di più, specialmente se fruiti in streaming, perché si appoggiano a data center che muovono una smisurata quantità di dati e richiedono un altissimo consumo energetico per poter restare attivi 24 ore su 24. Le infrastrutture che costituiscono il "motore fisico" di Internet divorano inoltre ampi appezzamenti di terreno e consumano non poche risorse idriche.

QUESTIONE DI NUMERI

Una recente analisi di un trittico di istituti di ricerca composto dalla Purdie University, Yale University e Massachussets Institute of Technology (pubblicata su Resourses, Conservation & Recycling), ha analizzato sia il livello di sfruttamento delle risorse naturali, sia il carbon footprint della Rete, citando esempi prelevati dalla vita di tutti i giorni che ben si rispecchiano nei tempi della pandemia.

Stando a quanto rilevato dallo studio, un'ora di videoconferenza emetterebbe 150 grammi di anidride carbonica, mentre un video in streaming della durata di 60 minuti, come un film o documentario proposto nei menu delle piattaforme più comuni, arriverebbe a rilasciarne circa 450 grammi (non è tardata ad arrivare l'obiezione di Netflix, che approfondiremo tra poco). Una cifra irrisoria se paragonata alle emissioni di una sola automobile – o anche solo di un litro di benzina, che ne produce circa 3.200 – ma che, contestualizzata in un periodo di saturazione, rischia di convertirsi in un fattore inquinante non più ignorabile.

Quanto alle risorse idriche e al loro consumo in relazione a ogni gigabyte di dati usati su internet, un’ora di videoconferenza e streaming necessiterebbero rispettivamente di 2 e 12 litri di acqua e una superficie terrestre della grandezza di un tablet.

Snocciolare qualche altro numero è fondamentale per capire la portata del fenomeno. Con la pandemia di Covid, il traffico globale di internet è aumentato di circa il 40%, secondo i dati di Sandvine riportati dalla CNN. Nel 2020, l’uso di dispositivi elettronici ha coperto il 10% dell’utilizzo globale di elettricità, un dato destinato a crescere di altri dieci punti percentuali entro il 2030. La categoria che traina la crescita è proprio quella dello streaming video: nel mondo, ogni giorno, vengono "consumate" circa 1 miliardo di ore di video su YouTube e 140 milioni di ore di contenuti su Netflix.

È soprattutto nei mesi di lockdown che la curva si è impennata: i video hanno rappresentato il 58% del traffico internet complessivo (fonte Sanvine). La domanda è stata così elevata che i principali player del settore, come Netflix o YouTube, hanno accolto la richiesta dell'Unione Europea di ridurre i bit-rate dei contenuti trasmessi in streaming in Europa per scongiurare un sovraccarico dei server che avrebbe compromesso lo svolgimento di attività essenziali, come smart working e didattica a distanza.

OBIETTIVO GREEN PER I GIGANTI

Sono tanti i colossi del tech che hanno impugnato la battaglia green aderendo all'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, primo fra tutti Google, che si è posto l’ambizioso obiettivo di utilizzare il 100% di energia carbon free per alimentare i suoi data center (quasi un milione dislocati in tutto il mondo) entro il 2030. Microsoft ambisce invece a diventare carbon negative (rimuovendo cioè dall'atmosfera più anidride carbonica di quanto ne emetta) entro il 2030, mentre Apple punta alla neutralità carbonica (pareggiare la quantità di CO2 emessa con quella rimossa dall'atmosfera).

L’OBIEZIONE DI NETFLIX

Dal canto suo Netflix ha di recente annunciato il progetto "Emissioni Zero + Natura" con cui si pone l'obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di gas serra entro la fine del 2022, mantenendolo anche negli anni successivi. Entro lo stesso anno, l'azienda realizzerà investimenti nella rigenerazione degli ecosistemi naturali essenziali per raggiungere lo zero netto.

Di recente, l'azienda ha inoltre calcolato la quantità di anidride carbonica emessa nell'atmosfera per ogni ora di video visti in streaming. Per farlo, ha utilizzato uno strumento chiamato Dimpact sviluppato dai ricercatori dell'Università di Bristol e finanziato dalla stessa Netflix insieme ad altri colossi tech, come la BBC e Sky tra gli altri, utilizzato dalle società di media digitali per mappare e gestire le proprie impronte di carbonio.

Grazie a Dimpact, è emerso che un'ora di video in streaming su Netflix equivale a meno di 100 g di anidride carbonica, ovvero meno di quanto ne emetta mediamente un'auto per percorrere circa 500 metri (un quarto di miglio), come riportato da Wired Uk. Un'ora di streaming consuma dunque come un condizionatore d'aria da 1.000 W acceso per 40 minuti.

Considerando gli oltre 200 milioni di abbonati nel mondo, resta comunque un dato da non sottovalutare.

In passato, i rapporti sulle emissioni dello streaming di Netflix erano stati gonfiati a dismisura: uno studio risalente al 2019 aveva erroneamente dichiarato che la visione di mezz’ora di contenuti Netflix equivale a 1,6 kg di CO2, la stessa quantità di un tragitto di circa 6 km in auto. Una cifra che, secondo l’International Energy Agency e il World Economic Forum, era fino a 90 volte superiore rispetto alla realtà.

COME RIDURRE L’IMPATTO

La sostenibilità fai-da-te premia sempre e, si sa, è con l'unione che si fa la forza. Apprezziamo quindi lo sforzo delle grandi aziende ma è giusto, nel limite delle nostre possibilità, adottare accorgimenti volti a mitigare l'impatto ambientale della tecnologia, come evitare il consumismo elettronico (conosciuto globalmente come "e-waste") o le attività che alimentano l'incessante lavoro dei server. Sembra difficile, ma è molto più semplice di quel che sembri.

Meno intuitivo, ma non per questo inattuabile, è contribuire alla riduzione dell'inquinamento prodotto dalla riproduzione dei video: i comportamenti virtuosi capaci di fare la differenza, soprattutto se adottati collettivamente, sono pochi ma significativi. Un esempio è disattivare l'Autoplay, una funzione che immette l'utente in un loop di contenuti – la maggior parte dei quali indesiderati – "macinando" molta più energia e prolungando la durata della riproduzione e della sosta dello stesso sulle piattaforme. Anche ridurre la risoluzione dei video, optando per quella standard anziché HD, è un'abitudine che si allinea ai principi sostenibili e porta a una riduzione dell'impronta fino all'86%. Infine, si consiglia di scaricare i video in un momento di decongestione della linea e visionarli offline una volta terminato il download, anziché in streaming.

Non è prerogativa unica del consumatore adottare linee guida comportamentali che attenuino l'impronta ecologica, ma anche e soprattutto delle aziende, a maggior ragione quelle a capo della sterminata e dispendiosa rete dei data center.

Un esempio virtuoso di "casa" è Aruba, la società toscana attiva nei servizi di data center, web hosting, e-mail e registrazione di nomi di dominio: il data center di Ponte San Pietro, sede centrale dell'azienda (nonché data center più grande d'Europa), ha raggiunto una carbon footprint negativa. Ciò significa che le centrali idroelettriche cui si appoggia e i pannelli fotovoltaici che ricoprono la struttura fanno sì che l'energia elettrica prodotta superi l'effettivo fabbisogno energetico delle macchine contenute nel data center.

Photo Credits: Shutterstock | petrmalinak

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